«Ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile ad un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52)
N.1 - Gennaio-Febbraio 2001
Articolo precedente Articolo succcessivo Stampa l'articolo

Nuovi assetti mondiali

Geopolitica e religione

Il significato e le ripercussioni sociologiche e religiose dei cambiamenti geopolitici in atto

di Felice Maggia

La Chiesa, per vocazione e missione, non si occupa né mai si è occupata di geopolitica, anche se, senza alcun dubbio, alla diplomazia più vecchia e con maggiore esperienza del mondo (quella vaticana) non possono essere sfuggiti il significato e le ripercussioni sociologiche e religiose dei cambiamenti geopolitici maturati nel mondo, tanto di quelli passati quanto di quelli in atto.
Con la scomparsa delle due Jugoslavie, quella monarchica e quella comunista, bastioni rispettivamente dell’Europa di Versailles e di Yalta che, curiosamente, costituivano un elemento prezioso e un punto fermo tanto della politica occidentale quanto di quella russo-sovietica (con qualche occasionale eccezione da parte di Stalin), gli anglo-franco-americani si sono ora messi alla ricerca di un "sostituto", cioè di una sistemazione dell’area ex jugoslava in grado di prendere il posto e assumersi le funzioni geopolitiche dello stato granserbo scomparso. Nella concezione originale, la "Grande Serbia", cioè una Serbia allargata ai paesi e popoli limitrofi, doveva a sua volta obiettivamente assumersi la successione e la sintesi delle funzioni dei due grandi imperi che storicamente si sono fronteggiati nei Balcani per secoli, cioè l’Impero Ottomano e quello Asburgico. Scomparsi con la prima guerra mondiale i suddetti imperi, i loro domini nell’area danubiana e balcanica venivano a trovarsi "senza padrone", cioè privi di qualcuno che potesse garantirne la "pacificazione" e la "governabilità", e che nel contempo, li sottraesse ad influenze da fuori area non gradite alle potenze vincitrici, cioè da un lato l’influenza russo-sovietica e dall’altro, soprattutto, quella mitteleuropea e germanica, alla cui sfera d’influenza fino ad allora le terre ad occidente della Drina e quelle lungo il Danubio erano appartenute. Insomma, il "vuoto politico" nei Balcani doveva essere riempito in modo favorevole ai vincitori. Così a Versailles la Serbia ottenne dalle potenze vincitrici dell’Intesa il mandato a governare un piccolo "impero" multietnico e multireligioso che geograficamente formava un raccordo strategico-territoriale tra Europa centrale e Medio Oriente e, politicamente, costituiva una satrapia delle due potenze dominanti: la Francia giacobina e l’Inghilterra imperiale e protestante. Detto tra parentesi, alle suddette funzioni geopolitiche, anti tedesca e anti sovietica, si univa anche quella di "sentinella adriatica" in funzione di barriera alle velleità espansionistiche italiane oltre Adriatico. Insomma, qualsiasi tipo di Jugoslavia, che fosse monarchica e reazionaria oppure titina e comunista, era quello che ci voleva per la salvaguardia degli interessi strategici di Parigi e di Londra nell’area del Sudest europeo, anche in barba ad uno dei quattordici famosi punti che Wilson (presidente USA) aveva enunciato come obiettivi della guerra contro gli imperi centrali: la liberazione dei popoli soggetti e il trionfo del diritto alla autodeterminazione dei popoli. Fu così che né ai croati né agli sloveni né agli slovacchi né ai bosniaci né ai macedoni fu mai chiesto di "autodeterminarsi" nell’unico modo possibile, cioè con un referendum. Questi piccoli popoli si trovarono invece dalla sera alla mattina dinanzi a un fatto compiuto.
In questo fine secolo (o fine millennio) appena trascorso il quadro geopolitico del Sudest d’Europa rischiava di sfuggire di mano ai menzionati architetti dell’ordine balcanico. Occorreva quindi al più presto ripristinare in una qualche forma nuova le leve e i meccanismi geopolitici precedenti al disfacimento dello stato federale e comunista jugoslavo (S.F.R.J.). Ne nasce tutta una serie d’iniziative politico-diplomatiche che si susseguono e accavallano, dopo sei anni di crisi politica e cinque di guerra cruenta che hanno coinvolto pressoché tutte le repubbliche della ex Jugoslavia. In questi cinque anni di stragi, di pulizia etnica, di negazione della volontà popolare, stavolta sì espressa con un referendum, le Grandi Potenze e i loro bracci secolari nelle Istituzioni Internazionali, hanno "mediato", "consigliato", "ammonito", "osservato", "proposto", ma dei cosiddetti "interventi umanitari" a difesa delle popolazioni civili di dozzine di città e paesi da Vukovar a Sarajevo e a Sebrenica, non se ne fece mai nulla. Per la verità, sembrava che si stesse per intervenire nei primi mesi dell’assedio di Sarajevo, ma fu il presidente francese Mitterand che si incaricò di mandare all’aria tutto con il suo inatteso volo nella capitale bosniaca per abbracciare il "fratello serbo" Karadzic, criminale di guerra. Si scartò pertanto la possibilità di un "intervento umanitario" basato sulla forza e si passò invece ad un "intervento umanitario" con "pacchi dono" e belle parole ricomprese nel motto: "non ci sono alternative alle trattative!".
Le Grandi Potenze e la Nato (che agiva fuori dall’area ricoperta dal trattato nonché al di fuori degli scopi istituzionali di difesa) si ricordarono e rispolverarono "l’intervento umanitario" coercitivo, solo nella primavera del ’99 nella questione del Kossovo e per tre mesi si misero a bombardare poche infrastrutture e materiali militari serbi e molte infrastrutture e popolazioni civili serbe e kossovare.
Dopo tutto questo tempo passato in vane schermaglie verbali che diedero all’aggressore ampio tempo per compiere la sua opera, ecco che tutto d’un tratto l’Europa dei quindici e l’America mostrano una fretta indiavolata di "riconciliare" le parti, azzerare cinque anni di massacri, far riprendere la "collaborazione" economica e politica. In altre parole procedere alla "ricostruzione" della carta politica della ex Jugoslavia partendo da economia e democrazia.

Il carosello delle conferenze e dei trattati
Con tali propositi s’inventano innanzitutto un’intensa e vischiosa rete di conferenze regionali, trattati e dichiarazioni che impongono "obblighi di collaborazione" tra i paesi dell’ex Jugoslavia (meno la Slovenia più L’Albania) e come compenso fanno balenare loro la possibilità di una "futura candidatura" all’ingresso nelle istituzioni europee.
Ecco l’elenco delle principali iniziative politico-diplomatiche susseguitesi nel breve volgere di cinque anni, con il viatico di campagne stampa tipo "Euroslavia" di Limes.
Citiamo gli accordi di Dayton-Parigi, Washington-Vienna e di Erdut come premesse che dettano le condizioni di pace sia in Croazia che in Bosnia, determinando nel contempo l’impianto "dello Stato bosniaco". Passerà poco tempo ed arriveranno le "iniziative di ricostruzione".
Incomincia l’America che si inventa la S.E.C.I. (Iniziativa di Cooperazione del Sudest europeo), diretta a comprendere tutti i paesi a partire da Ungheria e Slovenia fino ai confini della Grecia. Poi arriva il "Patto di Stabilità" partorito nell’apposita conferenza di Sarajevo. Anch’esso interessa il più vasto scenario balcanico e si compone di tre "tavoli di lavoro" (economia, democrazia, sicurezza). Come già la S.E.C.I. così anche il patto di stabilità è sprovvisto di una dotazione di fondi propri. Segue l’iniziativa "Jonico-Adriatica" frutto di una seconda iniziativa italiana messa in cantiere poco tempo fa, dopo la più famosa iniziativa centro-europea di De Michelis dal chiaro significato di contenimento dell’influenza della Germania riunificata sull’Est europeo.
Infine il ventiquattro di novembre u.s. si tiene a Zagabria su iniziativa di Chirac (sempre la Francia!) la conferenza sui cosiddetti "Balcani Occidentali". Essa impone ai paesi dell’ex Jugoslavia, meno Slovenia più Albania, una serie di obblighi di collaborazione in cambio di 4,6 miliardi di euro ripartiti su sei anni in modo piuttosto iniquo tra i cinque paesi. Tralascio di commentare in dettaglio e mi soffermo ad evidenziare solo quello che qui più ci interessa, cioè gli effetti sul piano sociologico e religioso a medio e lungo termine di questa "globalizzazione" dei cinque paesi dell’ex Jugoslavia più l’Albania. Il risultato più inquietante della conferenza di Zagabria è l’imposizione dell’obbligo di creare una zona di "libero scambio", ovvero un’unione doganale tra questi paesi. A parte l’utilità molto relativa di tale zona di libero scambio ai fini di un rilancio delle esportazioni e delle economie in generale (cinque poveracci che si mettono insieme e hanno bisogno di tutto o quasi disponendo di pochi mezzi, resteranno sempre dei poveracci, a meno di adeguati aiuti esterni che per ora non si vedono). Tanto più che le loro economie sono troppo rovinate, non sufficientemente complementari, ma piuttosto concorrenti e non specializzate, soprattutto in agricoltura. Resta però il fatto che un’unione doganale comporterà comunque un’organizzazione e delle istituzioni comuni di coordinamento, attorno alle quali si ricominceranno a costruire, pezzo dopo pezzo, altre istituzioni con sempre maggiori competenze e poteri, fino a costituire una nuova entità dei "Balcani Occidentali". Infatti fin d’ora la "dichiarazione" parla di "stretta collaborazione" in materia giudiziaria, economica e di "problemi interni".
Qualsiasi osservatore non proprio sprovveduto sa di che cosa si tratta e dove si vuole arrivare: dal libero scambio delle merci e dei capitali si passerà ben presto alla libera circolazione delle persone e, coi tempi che corrono, Croazia e Bosnia rischieranno di diventare non solo zone di passaggio (come già sono) ma anche di sosta permanente e d’immigrazione di masse di diseredati dal Kossovo, dall’Albania, dalla Serbia, e da molti altri paesi i cui clandestini oggi sbarcano a frotte nel Sud italiano o arrivano a Trieste e Gorizia via terra. Con questo scenario saremo già ad un passo da una nuova destabilizzazione etnico-politica di Croazia e Bosnia prima ancora che si siano rimarginate le ferite della destabilizzazione in atto.

La decattolicizzazione
E dal punto di vista religioso? Oggi nei cinque paesi dell’ex Jugoslavia più Albania, ribattezzati a Bruxelles con un neologismo di puro conio geopolitico come "Balcani Occidentali" si ha pressappoco il seguente quadro:
Ortodossi 12-13 milioni circa;
Musulmani 6-7 milioni circa;
Cattolici tra latini e orientali uniti, 5 milioni circa.
La distribuzione sul territorio degli appartenenti alle varie confessioni è già di per se sfavorevole ai cattolici: gli ortodossi vivono compatti nel cuore del territorio senza soluzione di continuità, grazie anche alla creazione a Dayton dell’entità serba di Bosnia, etnicamente e religiosamente epurata e con quasi tutti i luoghi di culto non ortodossi completamente distrutti.
I musulmani pure sono molto compatti e formano un unico blocco territoriale tra Albania, Kossovo, Macedonia occidentale, Sangiaccato e Bosnia.
La popolazione cattolica invece vive compattamente solo alla periferia del territorio che si vuole globalizzare, cioè in Croazia. Per il resto si tratta di isole cattoliche minoritarie, circondate e sommerse da una popolazione orientale sfavorevole ai cattolici. Queste isole cattoliche più o meno consistenti si trovano soprattutto in Bosnia, in Voivodina, in Montenegro e in Albania settentrionale. È chiaro che la popolazione cattolica si sentirà ancora una volta sacrificata e politicamente e socialmente compressa. Ciò tenderà inevitabilmente a far scegliere ai cattolici l’abbandono dei focolari più esposti ed isolati e spostamenti verso zone più sicure in altre parti del mondo. I confini storici tra oriente ed occidente (anche in termini di giurisdizione ecclesiastica) che dopo Costantino si trovavano in Tracia e Macedonia, furono a più riprese inesorabilmente sospinti verso il nord e verso l’ovest, fino ad attestarsi definitivamente sul fiume Drina secoli prima della conquista ottomana. Oggi questi stessi confini tendono a retrocedere ancora e nella sistemazione geopolitica imposta dai "nuovi ottomani d’occidente" si dovranno per forza attestare sui confini meridionali della Slovenia, nel punto più vicino, a solo una trentina di chilometri da Trieste. La frontiera di Schengen, attestata a sud della Slovenia, trasformerà questa terra in zona europea di frontiera con i nuovi Balcani, funzione che per secoli fu della Croazia e della sua "frontiera militare". A poco servirà che questi nuovi Balcani vengano poi in qualche modo anch’essi agganciati all’Unione Europea (se mai lo saranno). Tempi e modalità di un tale aggancio sono oggi massimamente incerti, molto più certa è l’ennesima aggregazione forzata di entità incompatibili e potenzialmente conflittuali.
In prospettiva le attuali tre diocesi della Bosnia tenderanno a perdere sempre più cattolici residenti. La popolazione cattolica della Bosnia nel giro di pochissimi anni, a causa della pulizia etnica e della guerra, si è ridotta da ottocentomila a quattrocentomila anime. Quella di Banja Luka, storicamente denominata "Croazia turca", è ormai pressoché priva di fedeli cattolici. All’incirca centomila di essi sono stati scacciati in pochi giorni dalle proprie case ed è pressoché impossibile per loro tornarvi, dopo cinque anni di tutela internazionale in Bosnia.
Per le diocesi della Croazia il processo di decattolicizzazione sarà senz’altro più lento e lungo, ma se le cose andranno come si prevede oggi e si permetterà che i piani geopolitici delle potenze laiche occidentali (i nuovi ottomani) arrivino a compimento, il risultato è sin d’ora scontato, tempo due o tre generazioni.

Cerca
La frase
S. Caterina da Siena